Ci sono periodi in cui va tutto storto.
E ci sono giorni in cui si concentrano tante cose belle, che prese singolarmente non ci fai caso, poi ti giri a guardarle e comincia la tachicardia e il gonfiarsi dell'ego in modo spasmodico. In questa settimana per esempio c'è stato Il Mio Primo Vero Colloquio in cui non mi sembrava di avere niente da invidiare alle "rivali" appena uscite da Cattolica e IULM, Comunicazione e Robacosì.
Ma soprattutto, oggi ho avuto l'onore di essere contattata da Niccolò Vecchia per una trasmissione su Radio Popolare: ho balbettato in diretta, ho ridacchiato imbarazzata, e lui ha letto, benissimo, un mio racconto che avevo scritto tempo fa, quando ancora arrancavo sul capitolo delle fonti della tesi e mi sembrava che non avrei mai finito, e quando, soprattutto, mi sembrava di vedere tutto un po' grigio.
Per me Radio Popolare è sia mito che presenza quotidiana: è prima di tutto ottima informazione, ma è anche l'unica radio che ascoltano i miei. È il giornale radio che ti fa compagnia a colazione o a cena, è gli annunci assurdi di Passatel a pranzo, le mitiche radiocronache dei mondiali o degli europei (mi ricordo l'anno scorso mentre li ascoltavo in streaming dal computer piangendo dal ridere, mentre i vicini del piano di sotto, quelli noti per "organizzare feste dove far bere le ragazze" rumoreggiavano anticipando la radiocronaca che ascoltavo io, perché seguivano le partite in diretta tv); leggere in una mail apparentemente innocua "sì, mi piace il tuo racconto, vorrei leggerlo a Sonica" (per la rubrica Storia di una Canzone) sarebbe stata una soddisfazione incredibile anche se non fossi l'egocentrica megalomane che sono; sentire lette le mie parole (ripeto, benissimo, comprese le tre g di gggiovani), parole che alla fine non sono tanto diverse da quelle che si ammonticchiano qui fra un disegno e una citazione, me le ha fatte sentire più vere, più possibili, meno imbarazzanti nonostante tutta la retorica e la fuffa e l'aria fritta che sono tanto brava a condire; il supporto via sms, whatsapp e Facebook dei miei amici ha reso solo il tutto più divertente (comunque sì, ero nervosa come prima di un esame o quasi mentre aspettavo la telefonata!).
(Non potevo non parlare della mia Lausanne, e forse era tutto già nato un po' qui e sicuramente qui. E una volta pensata alla canzone, le parole non potevano che venire fuori così, una dopo l'altra, proprio in quell'ordine lì) (e diciamo che è pure andata bene, perché il mio anno di Erasmus è stato pure l'anno di Ai Se Eu Te Pego)
E ci sono giorni in cui si concentrano tante cose belle, che prese singolarmente non ci fai caso, poi ti giri a guardarle e comincia la tachicardia e il gonfiarsi dell'ego in modo spasmodico. In questa settimana per esempio c'è stato Il Mio Primo Vero Colloquio in cui non mi sembrava di avere niente da invidiare alle "rivali" appena uscite da Cattolica e IULM, Comunicazione e Robacosì.
Ma soprattutto, oggi ho avuto l'onore di essere contattata da Niccolò Vecchia per una trasmissione su Radio Popolare: ho balbettato in diretta, ho ridacchiato imbarazzata, e lui ha letto, benissimo, un mio racconto che avevo scritto tempo fa, quando ancora arrancavo sul capitolo delle fonti della tesi e mi sembrava che non avrei mai finito, e quando, soprattutto, mi sembrava di vedere tutto un po' grigio.
Per me Radio Popolare è sia mito che presenza quotidiana: è prima di tutto ottima informazione, ma è anche l'unica radio che ascoltano i miei. È il giornale radio che ti fa compagnia a colazione o a cena, è gli annunci assurdi di Passatel a pranzo, le mitiche radiocronache dei mondiali o degli europei (mi ricordo l'anno scorso mentre li ascoltavo in streaming dal computer piangendo dal ridere, mentre i vicini del piano di sotto, quelli noti per "organizzare feste dove far bere le ragazze" rumoreggiavano anticipando la radiocronaca che ascoltavo io, perché seguivano le partite in diretta tv); leggere in una mail apparentemente innocua "sì, mi piace il tuo racconto, vorrei leggerlo a Sonica" (per la rubrica Storia di una Canzone) sarebbe stata una soddisfazione incredibile anche se non fossi l'egocentrica megalomane che sono; sentire lette le mie parole (ripeto, benissimo, comprese le tre g di gggiovani), parole che alla fine non sono tanto diverse da quelle che si ammonticchiano qui fra un disegno e una citazione, me le ha fatte sentire più vere, più possibili, meno imbarazzanti nonostante tutta la retorica e la fuffa e l'aria fritta che sono tanto brava a condire; il supporto via sms, whatsapp e Facebook dei miei amici ha reso solo il tutto più divertente (comunque sì, ero nervosa come prima di un esame o quasi mentre aspettavo la telefonata!).
(Non potevo non parlare della mia Lausanne, e forse era tutto già nato un po' qui e sicuramente qui. E una volta pensata alla canzone, le parole non potevano che venire fuori così, una dopo l'altra, proprio in quell'ordine lì) (e diciamo che è pure andata bene, perché il mio anno di Erasmus è stato pure l'anno di Ai Se Eu Te Pego)
We’re young è stata un po’ la mia
colonna sonora personale del secondo semestre di Erasmus. Non era tanto
questione di sentirla o ascoltarla spesso. Piuttosto (e mi rendo conto che sto
per dire qualcosa di assurdo e imbarazzante), mi sembrava che risuonasse in
ogni singolo passo che facevo la sera mentre tornavo a casa. Nell’aria calda di
maggio, nel profumo del biancospino, nelle chiacchiere ai tavolini del bar
dell’università, o seduti su una scalinata del centro a bere birra e ridere dei
rispettivi accenti.
Non so come mai proprio
questa canzone sia diventata quasi un simbolo di quegli ultimi mesi in una
città straniera che era diventata la mia. Ma nei primi sette secondi, un’intro
brevissima di sola batteria, io risento l’attesa piena di aspettative che si
respira solo quando si vive in un posto che è ancora nuovo, ancora da scoprire,
ancora da esplorare, quando ogni giorno può regalarti una sorpresa, e un
incontro casuale diventare amicizia. Nella voce chiara e pulita che canta le
prime parole, rivivo la sensazione assordante della consapevolezza di assoluta
libertà (e nel racconto di una storia d’amore che non è andata a finir bene,
riascolto, come tutti, insuccessi e occasioni sprecate). Nel ritornello
enfatico cantato a squarciagola in coro, come un inno, l’unica cosa a cui penso
è l’esaltazione di quando ci si rende conto che tutto è possibile, che ogni
istante offre possibilità che solo tu sei in grado di cogliere (e allora perché
non cantare, perché non ridere forte, ballare e avere il coraggio di buttarsi,
di provare quella sensazione di paura e adrenalina di quando ti tuffi dal
trampolino più alto?)
Questa stupida, sciocca
canzone (costruita di proposito per risultare coinvolgente, favorire
l’immedesimazione, essere amata dai gggiovani)
è come uno di quei dolcetti nemmeno tanto buoni che sono stati resi celebri da
Proust. Mi basta ascoltarla per caso, inaspettatamente, e rivedo la me che si
prepara a uscire, nel mio studiò
dalla tenda blu lasciata da un precedente proprietario. Mi ricordo la fine dei
corsi, una serata di giugno, farsi belle e andare a ballare con due amiche,
anche se è mercoledì, anche se non vado mai a ballare, perché non lo so fare,
perché mi sento ridicola, perché non è da me. È come se fossi tornata a casa a
piedi solo la notte scorsa, stanca ma felice, mentre il cielo si fa sempre più
chiaro e i primi lavoratori mattinieri sono già in macchina a guardare con un
sentimento misto di disprezzo e invidia quelle due ragazze, sicuramente
studentesse, sicuramente sfaticate, sicuramente straniere, che se la prendono
comoda a rientrare, godendosi il primo giorno di libertà dalle lezioni,
respirando a pieni polmoni aria di libertà (un misto di mattinata di giugno,
pane fresco e gas di scarico) e chiacchierando delle aspettative sul futuro, di
progetti e aspirazioni, sempre sul punto di essere infrante eppure
miracolosamente ancora integre.
Perché forse, a volte,
abbiamo solo bisogno di qualcuno che ci ricordi che siamo giovani, e che
possiamo bruciare il mondo (che poi lo diceva anche Cecco Angiolieri, non è
certo qualcosa di originale. Ma non per questo è meno bello). Anche se non
abbiamo più sedici anni, anche se siamo (quasi) adulti e (quasi) laureati e
(quasi) responsabili. C’è sempre una piccola parte di noi che si sente
totalmente irresponsabile e sciocca, che si prende cotte-lampo di cui si
dimentica dopo due ore, e che coltiva progetti al di fuori della realtà. Ed è a
questa piccola parte anarchica che dobbiamo le nostre idee geniali, i momenti
di benedetta leggerezza, e gli aneddoti più belli da raccontare.
Aggiornamento
Siamo al 2 Aprile, e il blog di Sonica è finalmente aggiornato! Qui trovate l'audio con la splendida lettura del conduttore!
Le canzoni erasmus sono personalissime... per me è questa: http://www.youtube.com/watch?v=WbN0nX61rIs e sto attenta a non ascoltarla troppo per non rovinarmela :)
RispondiEliminaPoi devo dire la verità, adesso che si avvicina la laurea ho una voglia di scapparmene altrove a prescindere che mi prende e non mi molla più :D
Le canzoni erasmus sono anche molteplici! Io, per esempio, ho scoperto gli Austra proprio a Lausanne ;) (Ma non disperare: ci sono anche le canzoni per la laurea, e non sto parlando dell'orribile coro di "Dottore, dottore...")
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